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Categoria: ...IN ITALIA
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          PREMESSA

Vi spiego, con una botta di conti ed un'infarinatura base di alcuni concetti macro-economici, la ragione per cui il non subalterno al neo-liberismo Fassina (lo stralcio in corsivo reca orgogliosamente la sua rossa paternità, sia chiaro!) sbaglia bovinamente quando sostiene che la spesa pubblica non vada ridotta; che la crisi sia dovuta ad un taglio politico-economico liberista (non c'è nulla di liberale, né di liberista, nell'avvinghiare in una salassante morsa fiscalmente oppressiva il già esangue contribuente).

Non è che avessi particolare voglia di dedicarmi alla stesura d'una lenzuolata di quest'entità, alla luce del notevole dispendio di tempo e sforzi mentali richiesti. Ho dunque vinte le esitazioni in virtù d'un passionale slancio d'ardimento dettato dalla mia autolesionistica voglia di confutare filo per segno le bordate allucinanti d'una determinata correte politica, quella turbo-statalistica o, rendendo pan per focaccia a quel somaro di Fassina(sino) oggetto d'ischerno in questo articolato post, subalterna al neo-comunismo.

Per comprendere a fondo le mille bubbole blu del nostro, c'è da aprire un'ampia parentesi sulla terminologia usata quando ci s'addentra nel variegato e variopinto humus economico.

 

QUALCHE NOZIONE PROPEDEUTICA...

1) Anzitutto, c'è da tracciare una netta linea di distinzione fra pil nominale (PIL_NOM) e pil reale (PIL_REAL): il primo indicatore non tiene conto dell'andamento dell'inflazione, nel senso che ne vien espresso al lordo; il secondo, viceversa, al netto. Queste due grandezze macro-economiche son legate l'una all'altra dal cosiddetto deflatore (DEF) secondo la seguente relazione: PIL_NOM/DEF = PIL_REAL.     

Come lo si calcola, il deflatore? Supponendo d'avere un paniere di prodotti di produzione nostrana (P1, P2, ..., Pn), se ne considera la somma della quantità (Qi_t) per il prezzo (PRi_t) in un determinato anno (t = 1):

            Q1_1*PR1_1 + Q2_1*PR2_1 + ... + Qi_1*PRi_1 + ... + Qn_1*PRn_1 = N;

 tale somma, poi, la si ricalcola considerando prezzi e quantità dei prodotti del paniere in questione in un preciso anno di riferimento, ad esempio quello immediatamente precedente (t = 0):

            Q1_0*PR1_0 + Q2_0*PR2_0 + ... +   Qi_0*PRi_0 + ... + Qn*PRn_0 = D.

 Supposto D il pil relativo all'anno di base (anno zero), il primo passo per depurare N dall'inflazione consiste nel suo ricalcolo al netto della stessa, facendo perno sui prezzi relativi all'anno zero (Q1_1*PR1_0 + Q2_1*PR2_0 + ... + Qi_1*PRi_0 + ... + Qn_1*PRn_0 = N1 ); in secondo luogo, ne si ricava il deflatore mettendo N1 a rapporto con D (DEF=N1/D); da ultimo, il pil reale di N vien determinato dividendolo per il deflatore (N_REALE = N/DEF).

 

Esempio chiarificatore

Al tempo 0 il prodotto interno lordo nominale e reale coincidono. Supponendo che a determinare suddetto pil concorrano due soli prodotti, barattoli e fogli di carta dal prezzo unitario rispettivamente pari a 5$ e 0,5$ e nelle rispettive quantità di 50 e 100, il pil al tempo 0 sarà pari a 50*5$ + 100*0,5$ = 250$ + 50$ = 300$.

Al tempo 1, ipotizzando un rincaro dei prezzi d'ambo i prodotti del 10% a fronte d'un modesto incremento di produttività pari a 5 unità di prodotto per entrambe le tipologie, il pil nominale risulterà essere pari a 55*5$*1,1 + 105*0,5$*1,1 = 302,5$ +  57,75$ =  360,25$. Rispetto all'anno precedente, il pil corrente risulterà maggiore non già in virtù dell'aumento di produttività, che è risicato, bensì in forza dell'inflazione (quella che quel fior di puttaniere e complottista di Barnard non conosce, tanto per intenderci!).

Ecco che allora interviene il deflatore a calmierare il pil nominale, rendendolo reale: a) si ricalcola il pil nominale al tempo 1 ignorandone l'inflazione, ottenendo 55*5$ + 105*0,5$ =  275$ +52,5$ = 327,5$; b) il rapporto fra pil ricalcolato e pil dell'anno base determina l'ammontare del deflatore, che in questo caso è dato da 327,5$/300$ ~ 1,0917; c) il pil reale al tempo 1, infine, lo si determina mettendolo a rapporto col deflatore in questione, risultando pari a 360,25$/1,0917 = 329,9$

Come volevasi dimostrare, la differenza di pil reale nei due anni di riferimento è minima proprio perché è altrettanto minima la rispettiva discrepanza produzionale.

 

 

2) Il rapporto fra debito pubblico e pil soggiace a determinate leggi matematiche. Indicato con It il tasso medio nominale pagato sul debito all'anno t, con Rt quello reale e con dt il deflatore, s'avrà che

   It = (1 + Rt)*(1 + dt).

Indicato con Dt il valore nominale del debito pubblico all'anno t, con Dt-1 il medesimo all'anno precedente, sarà verificata la seguente uguaglianza:

        Dt = (1+ It)*Dt-1 - At - St,

ove con At ed St s'intendono rispettivamente l'avanzo primario nominale e le entrate straordinarie all'anno t.

Indicato con Pilt il pil nominale all'anno t, con Pilt-1 lo stesso all'anno precedente, il primo lo si determina tenendo conto della rispettiva crescita ravvisata rispetto all'anno precedente, Ct:

            Pilt = (1+ Ct)*(1 + dt)*Pilt-1.

Mettendo a rapporto Dt e Pilt, con le dovute semplificazioni, s'ottiene

   Dt/Pilt = [(1 + Rt)/(1 + Ct)]*(Dt-1/Pilt-1) - At/Pilt - St/Pilt.

Da quest'ultima ed importante relazione s'evince di come ci sian fondamentalmentre tre modi per poter tener a freno tale grandezza: a) mantenere il rapporto (1 + Rt)/(1 + Ct) inferiore a 1, cioè far sì che il tasso d’interesse reale medio pagato sul debito risulti inferiore a quello di crescita reale del PIL; b) aver un avanzo primario, cioè far sì che la differenza fra entrate ed uscite sia positiva (viceversa, si parla di disavanzo); c) aver entrate straordinarie, date - che so - da investimenti et similia.

 

 3) Un altro parametro che vien spesso adoperato come metro di giudizio della situazione economica d'un paese, è quello del costo unitario per unità di prodotto o unit labour cost (ulc): lo si ottiene mettendo a rapporto il compenso lordo d'un singolo lavoratore con la sua produttività, rispettivamente a numeratore e denominatore (in un azienda informatica, ad esempio, la produttività potrebbe riferirsi al numero di progetti portati a termine ogni mese da un singolo dipendente). A livello macro-economico, però, tale indice è dato dal rapporto fra il costo del lavoro totale ed il pil reale: tanto più aumenta nel tempo, quanto meno competitivo risulterà il paese a cui si riferisce, perché ad un certo punto sarà più conveniente importare merci dall'estero a prezzi più vantaggiosi.

Non è un caso che la Germania abbia un ulc di gran lunga inferiore, principalmente per contenimento dei salari, rispetto a quello dei cosiddetti Stati PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna); ciò nonostante, un lavoratore tedesco percepisce uno stipendio che è mediamente superiore a quello italiano d'un 15%. Giusto per dare un'idea delle differenze di ulc dei principali paesi d'Europa, l'anno scorso - nel 2012 - quello italiano s'attestava sopra il valore di 135; quello tedesco fra 110 e 115; quelli olandese, spagnolo e portoghese s'aggiravan attorno a 125; Francia, Belgio ed Olanda oscillavan fra 130 e 135.

 

4) Un ulteriore indicatore di sovente menzionato negl'articoli d'economia è il cosiddetto Indice dei Prezzi al Consumo (IPC), e vien determinato sommando le differenze dei prezzi di ciascun prodotto del paniere di riferimento (P1, P2, ..., Pn) ravvisate in due specifici anni di riferimento, in prima istanza; sommando i prezzi d'ogni prodotto al tempo zero, in secondo luogo; dulcis in fundo, mettendo rispettivamente le due quantità così determinate a rapporto. Traducendo il tutto in termini di formule, definendo Pi_1 il prezzo dell'i-esimo prodotto al tempo 1, con Pi_0 il prezzo del medesimo al tempo 0, l'IPC assume le seguenti sembianze: [(P1_1 - P1_0) + (P2_1 - P2_0) + ... + (Pn_1 - Pn_0)] / (P1_0 + P2_0 + ... + Pn_0). Il risultato va poi convertito in percentuale moltiplicando per 100.

Un IPC dell'1% (ipc=0.01*100%), a titolo d'esempio, significa che il prezzo dei prodotti relativi al paniere esaminato ha risentito d'un aumento di tale percentuale.

 

5) L'avanzo primario del bilancio statale è quella grandezza macro-economica data dalla differenza fra spesa pubblica ed entrate tributarie ed extra-tributarie, al netto del costo degl'interessi sui titoli di debito pubblico. Indicati con S la spesa pubblica, con T, XT e DT rispettivamente le entrate tributarie, quelle extra e la parte di deficit finanziato emettendo denaro, l'avanzo primario risulta pari a S - (T + XT +DT). Se il risultato di tale formula è positivo, si parla invece di disavanzo primario.

 

6) Una menzione d'onore va serbata pure alla cosiddetta curva di Laffer , aspetto ignorato beatamente e beotamente da Fassina: essa descrive l'andamento del gettito in funzione della pressione fiscale: superato un certo limite corrispondente al picco della curva - e dunque delle entrate -, s'osserva di come questa prenda a definire un arco discendente al crescere della pressione fiscale.

 

CONFUTAZIONE DELLE FASSINERIE

 Una volta assimilati questi basilari concetti, veniamo a noi!

Le scempiaggini di Fassina son per lo più sorrette da indicatori da lui elevati a rango di vere e proprie pietre di paragone di validità assoluta, infallibile ed obiettiva: quelli del reddito e la spesa pro-capite. Nulla di più fuorviante, dato che in tal modo si fa esclusivamente perno su valori assoluti divisi per un numero di abitanti! Il buon senso esige infatti che la spesa d'un paese venga commensurata al proprio pil.

Scendendo più nello specifico, Fassina riporta una lista degl'otto paesi d'Europa economicamente più influenti, ordinandoli in modo decrescente per reditto pro-capite relativo al 2012 espresso in dollari statunitensi e valutati con un qualche metodo della cosiddetta parità dei poteri d'acquisto

 Da tale tabella emerge di come la Germania abbia un reddito superiore a quello dell'Italia di circa il 30%.

Ora, secondo i calcoli di Fassina basati su dati deflazionati al pil dell'anno 2005, la spesa pubblica pro-capite italiana sarebbe di 9.624 euro, mentre quella tedesca di 12.062 euro, con una differenza del 25,3%. Inoltre, soltanto la Spagna spenderebbe meno dell'Italia. Ne desume, il nostro, una fallace implicazione: e cioè che l'Italia può tranquillamente darsi alla pazza gioia, spendendo a ruota libera! Una follia.

Va da sé che la spesa pro-capite sia più alta laddove, per esempio, il dipendente pubblico vien meglio remunerato: lo Stato, come quello tedesco, per lui spende più di quanto non faccia un altro meno prodigo in tal senso, come l'Italia.

 Se proprio si vuole avanzare una qualche conclusione da tali premesse, è che l'Italia spende più della Germania: se un euro vale 1,37$, considerando il rapporto fra reddito pro-capite italiano rivalutato in euro e rispettiva spesa pro-capite, s'ottiene, come quoziente della divisione, 2,3; nel caso della Germania, 2,36. Per chiarire le idee, meno si spende, più il quoziente è alto: dato che quello italiano è inferiore alla controparte tedesca, si conclude che noi spendiamo più dei tedeschi. Dunque, le sue argomentazioni gli si son ritorte contro.

 L'economista Sandro Brusco, in un suo articolo suddiviso in tre parti, Fassineide - La Trilogia , ad un certo punto chiede al lettore cosa succederebbe se si giungesse alla conclusione che l'Italia deve aumentare del 25% la propria spesa primaria, cioè quella al netto degl'interessi sui titoli di debito pubblico, in modo da portarla al livello pro-capite della Germania; di quanto dovrebbe salire il rapporto fra spesa pubblica e pil; di quanto dovrebbe crescere la pressione fiscale, se si volesse mantenere il rapporto fra deficit e pil al di sotto del 3%.

 

Io provo a rispondere...

Per ricavarsi un'approssimativa stima del pil, si può considerare il debito pubblico lordo espresso sia in valore assoluto che in percentuale sul pil: al momento, ammonta a 2.107 miliardi di euro, pari a circa il 133% del pil. Ne discende un indicativo pil di 1.584 miliardi di euro. Ma forse è meglio attenersi il più possibile alla realtà dei fatti: stando all'articolo di Brusco, nel 2013 il pil nominale era previsto dovesse aggirarsi attorno ai 1.557 miliardi di euro. La spesa pubblica totale (Spt) e quella per interessi (Si) s'attestano rispettivamente all'incirca al 52% e 5% del pil, mentre la spesa primaria (Sp) è data dalla loro differenza:

Spt = 1.557*0,52 = 809,64 mil.€,  Si =  1.557*0,05 = 77,85 mil.€,  Sp = 52% - 5% = 47% =  731,79 mil.€.

Aumentando del 25% la spesa primaria, quella pubblica sarà uguale a

                  Spt = Sp*1,25 + Si =  47%*1,25 + 5% = 63,75%,

superiore di ben l'11,75% rispetto a quella precedente (63,75% - 52% = 11,75%). In rapporto al pil s'ottiene

          Spt/pil = 11,75%/100% = 0,1175.

Nessun paese d'Europa raggiunge simili vette di sciupio.

Se, ora, si vuol tenere il deficit sotto il 3% del pil, significa aumentare la voce relativa alle entrate, attestatesi nel 2013 a 690 miliardi di euro, pari al 44,31% del pil; nello stesso anno, la pressione fiscale galoppava al 44,3% circa. Nell'ipotesi d'una spesa pubblica totale pari al 63,75%, la relazione da esaminare per arrivare alla soluzione dell'esercizio sarà la seguente:

         deficit/pil = |(Entrate - Uscite)|/pil.

E dunque

                       |(44,31% - 63,75%)|/100% ~ |-19,4%|/100% = 19,4%/100% = 0,194 > 0,03 = 3%.

Questo significa che, per tener il deficit esattamente al 3%, le entrate debbano essere

            |Entrate - 63,75%| = 3% -> Entrate = 60,75%.

Con un aumento sostanziale della pressione fiscale, dulcis in fundo, di circa il 16%.

 

CONCLUSIONI

 A conclusione di questa assai prolissa postilla, c'è da porre in enfasi come NON sia affatto vero che questi anni sono stati caratterizzati sia da un taglio della spesa, che da una riduzione delle tasse, binomio che sarebbe - a dire di Fassina - una delle cause della crisi, nonché frutto d'una politica basata - continua - su un paradigma neo-liberista. Sempre basandomi sulle informazioni prese dall'esauriente articolo di Brusco, risulta piuttosto chiaro.

 

Tabelle relative alle spese e l'entrate al netto degl'interessi sui titoli di debito pubblico, rispettivamente in valore assoluto espresse in miliardi di euro ed in percentuale sul pil:

 

Appare evidente come la pressione fiscale non sia calata né in valore assoluto, né in relazione al pil, a fronte d'un modestissimo calo della spesa primaria nell'intervallo 2009-2012, ripreso poi ad aumentare a cavallo fra il 2012 e 2013.

 

 

 

 

 

 

 

 

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